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CONTESTED DESIRES: Constructive Dialogues al Museo Egizio

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Dal lunedì al sabato dalle ore 9:00 alle 18:30


Cinque artisti internazionali sono attualmente in residenza al Museo Egizio.


Nicolas Kyrillou, Maya Louhichi, Dorottya Márton, Patrick Ngabonziza e Gloria Oyarzabal si stanno confrontando su storie coloniali, in stretto dialogo con la collezione. I cinque artisti utilizzeranno la propria arte per raccontare memorie collettive e avviare un confronto critico e costruttivo con il passato.


Le opere saranno visitabili dal 18 al 28 luglio lungo il percorso espositivo, tra primo e secondo piano del Museo Egizio.


Venerdì 18 luglio alle 19 gli artisti terranno un talk nella Sala conferenze del Museo Egizio, in dialogo con Johannes Auenmüller, Divina Centore e Cédric Gobeil (Museo Egizio). L'ingresso è libero, l'iscrizione obbligatoria cliccando QUI. Il talk sarà trasmesso anche nei canali Facebook e YouTube del Museo Egizio, in diretta e in differita.




I progetti espositivi site-specific 


Show-Case, di Nicolas Kyrillou (piano 2, sala 5)


Il titolo Show-Case gioca sulla duplice funzione dell’esposizione museale: rivelare e al contempo occultare. Si riferisce letteralmente alla vetrina del museo – dove gli oggetti vengono incorniciati, isolati e resi visibili – ma interroga anche l’atto stesso del “mostrare” come gesto curato e controllato. Nel contesto della decolonizzazione e della restituzione, Show-Case suggerisce una consapevolezza critica di come alcune narrazioni vengano selettivamente presentate, mentre altre restano nascoste o escluse. La copertura parziale in tessuto di iuta, accostata agli stampi di oggetti assenti, spinge i visitatori a chiedersi cosa venga realmente “mostrato”, chi compia l’atto del mostrare, e cosa rimanga appena oltre il campo visivo. Il titolo diventa così una provocazione sottile: è un case (vetrina) per l’esposizione o un case (caso) da esaminare?


Durante l’Età del Bronzo, come osservato da Haras Georgiou in Relations between Cyprus and the Near East during the Bronze Age, lettere attestano un rapporto di amicizia tra il regno di Alashiya e l’Egitto. Alashiya – Cipro, il mio paese d’origine – rappresenta per me un intreccio stratificato di tempo. La sua identità in continua trasformazione, attraverso successive occupazioni, ha arricchito il nostro DNA collettivo, dando origine a ciò che nel programma CDCD definiamo Patrimonio Coloniale Multiculturale.


L’assenza di queste ceramiche dal loro contesto originario – oggi presenti solo come calchi – segnala sia la loro rimozione fisica dal luogo d’origine, sia il loro distacco dalla memoria locale. Esposte in una vetrina museale all’interno di una sala dedicata al Medio Regno, evocano tuttavia il loro futuro come manufatti del Nuovo Regno, periodo al quale effettivamente appartengono.


Nella pratica dell'artista, lo stampo è uno strumento per preservare la memoria di un oggetto – e per estensione di un intero territorio – nel tempo, ma rappresenta anche l’impronta del confine tra interno ed esterno. L’amicizia tra Alashiya e l’Egitto durante l’Età del Bronzo, e il dono di tali ceramiche, conferisce a questi oggetti culturali un valore emotivo, in particolare per i defunti nelle cui tombe sono stati rinvenuti.


Questo valore emotivo, spesso cancellato dalle esposizioni museali, solleva importanti interrogativi sulla restituzione. In tal senso, potremmo – e dovremmo – porci la domanda: questi manufatti dovrebbero essere restituiti per riposare accanto ai defunti in Egitto, oppure dovrebbero essere utilizzati come testimonianze materiali di un’amicizia interculturale tra due paesi, Egitto e Cipro, considerando anche il fatto che Cipro si è sempre trovata all’interno di una realtà più ampia fatta di violenza, colonizzazione e occupazione, realtà ancora oggi presente?


L’installazione presentata nella vetrina comprende una serie di disegni che narrano visivamente il viaggio delle ceramiche tra due antichi regni, insieme ad altri oggetti di scambio come lingotti di rame e iscrizioni epigrafiche. I vasi ceramici sono rappresentati attraverso la loro assenza materiale e illustrati in bianco e nero, evocando al contempo presenza e perdita. Parole come Re, Fratello e Cipro appaiono in scrittura ciprosillabica, collocando le ceramiche nel loro contesto storico e culturale. Questi elementi suggeriscono che i vasi funzionassero come simboli di scambio interculturale all’interno di un quadro geopolitico un tempo segnato da alleanza e riconoscimento reciproco. Oggi, tuttavia, sono esposti in un museo, disconnessi dalla loro funzione e dal loro contesto originario, simbolo di una rete culturale ormai perduta.


I sacchi in tessuto grezzo, spesso utilizzati nei checkpoint e nelle barriere militari, simboleggiano per me la soglia tra accesso e proibizione – specialmente in relazione all’informazione e alla visibilità. Nel contesto della decolonizzazione e della restituzione, li utilizzo per coprire parzialmente la vetrina museale come metafora delle storie oscurate e del controllo istituzionale. Accostati agli stampi che evocano l’assenza degli oggetti originali, i sacchi di juta – questo tessuto ruvido – mettono in evidenza ciò che è nascosto o trattenuto, invitando a riflettere su perdita, proprietà e sull’etica dell’esposizione.


Nicolas Kyrillou (1998, Nicosia, Cipro), vive e lavora tra Parigi e Nicosia. Si è diplomato alle Beaux Arts de Lyon (2021) e alle Beaux Arts de Paris (2023). Dopo la scuola superiore, si è arruolato nell'esercito per il servizio militare obbligatorio, dove ha trascorso il suo tempo osservando la Buffer Zone di Nicosia, il territorio che divide Cipro in due. 


Attualmente vive e lavora tra Parigi e Nicosia; il suo lavoro di scultura e multimedia si concentra sulla questione della divisione del suo Paese e della sua città di nascita, l'ultima capitale divisa al mondo, e sulla memoria e la materialità di un confine. 


Dalla lettura e dalla ricerca della storia, dell'archeologia, dall'osservazione degli oggetti, delle texture e delle installazioni urbane e militari che lo ispirano, trova la motivazione per sperimentare tra vari materiali e mezzi come la fusione, il collage e le proiezioni. La nozione di stratificazione è fondamentale nella mia procedura di lavoro e nel risultato finale di ogni opera.


Le sue opere sono state esposte al Museo del Louvre nella sala della Grecia preclassica, al Paris de Études de Beaux Arts di Parigi (mostre collettive: Crush, Mondes Nouveaux ecc.) e in altre mostre collettive a Parigi e Ginevra.

It Was Not the Color - di Maya Louhichi (piano 2, sala 4)




It Was Not the Color è un’opera contemplativa e sperimentale che invita a un viaggio nei paesaggi della pelle – le sue texture, i suoi contorni, le sue sfumature. Attraverso riprese ravvicinate di corpi dalle tonalità diverse – nera, bianca, marrone – il video interroga il nostro rapporto con la pelle, tra eredità e percezione contemporanea.


Ispirata al termine Kemet, l’antico nome dell’Egitto – la Terra Nera – che si riferiva alla fertilità del suolo, l’opera risveglia un simbolismo dimenticato, in cui il colore nero evocava forza e vita, lontano dalle interpretazioni attuali.


Sul fondo, riaffiora il colorismo, spesso invisibile. Corpi un tempo percepiti oltre la loro pigmentazione vengono oggi letti, interpretati, talvolta classificati.


Senza parole e intimo, il film propone una riflessione sensoriale su ciò che l’essenza del corpo rivela al di là del visibile.




Maya Louhichi è nata nel 1985 da madre francese e padre tunisino, Maya Louhichi è un’artista visiva la cui pratica si fonda su un approccio di ricerca. Affronta temi personali e collettivi legati alla memoria, all’eredità culturale, alle tracce e alla loro trasmissione. Formatasi al di fuori delle istituzioni accademiche, il suo percorso creativo si muove tra l’intimo e il politico. Dal 2018, il suo lavoro è profondamente influenzato dall’eredità cinematografica del padre, il regista Taïeb Louhichi (1948–2018).


Attualmente sta portando a termine Mareth, un village parmi tant d'autres, un progetto che prosegue questo lascito mettendo in parallelo l’attuale emigrazione di massa e quella degli anni ’70, a partire dal documentario Mon village, un village parmi tant d'autres (1972) realizzato dal padre. Il progetto, sostenuto dalla borsa Helping Hands della Tui Care Foundation, interroga la memoria, i luoghi e l’assenza dal punto di vista del Paese d’origine.


Nel 2024 ha presentato il libro Et dans la terre, je me souviens presso la libreria Zoème di Marsiglia (Francia). Nello stesso anno è stata selezionata per il programma transnazionale Contested Desires: Constructive Dialogues, che riflette sull’eredità del colonialismo europeo nei musei e nei siti patrimoniali. In questo contesto, la sua ricerca si concentra sul colorismo e sul suo impatto contemporaneo.


Ha esposto, tra gli altri, alla Biennale africana della fotografia Rencontres de Bamako (Mali), a Jaou Photo (Tunisia), al MUHNAC (Portogallo) e al Shubbak Festival (Regno Unito).





Patrick Ngabonziza (piano 2, sala 5)


È questo il modo di trattare una Regina dei re di tremila anni?

Anch’io un tempo ero esposta all’aperto, tra altri monumenti, proprio come il re Carlo Felice di Sardegna.

Costruita per resistere ai raggi impietosi della terra di Ra.

Tutti i viaggiatori restavano incantati dalla mia statura colossale.

Dalla mia scoperta in poi, fu una corsa sfrenata tra i viaggiatori, che si definivano esploratori ma erano in realtà conquistatori della terra di Ra, Ra, Ra.

Per coloro tra noi che un tempo erano illustri e stimati, si scatenò una gara: essere riportati alla luce e trasferiti. E così fu. Venimmo dissotterrati in gran numero.

Alcuni furono danneggiati nel processo, lasciati in rovina, mentre la Regina dei re e frammenti di ogni forma e dimensione venivano raccolti, sistemati e impilati in paglia protettiva, ma ruvida e pungente, per essere poi ricollocati altrove.

La città di Torino, ad esempio, si vanta di essere stata la prima del suo genere in Europa e l’unica a possedere il maggior numero di monumenti, tra i più rari e grandiosi, al di fuori della loro antica e naturale terra di Ra.

Questo testo è una libera interpretazione di tre fonti storiche:

· Una lettera di Jean-François Champollion al re Carlo Felice di Sardegna (1824)
· Il poema Ozymandias di Percy Bysshe Shelley (1818)
· Una dichiarazione pubblica del Cav. Giulio Cordero di San Quintino, primo direttore del neonato Regio Museo Egizio di Torino (1824, oggi Museo Egizio)

Materiali: pigmenti naturali — carbone, argilla rossa, indaco, curcuma, cristalli di noce — su mussola
Tecnica: dipinto a mano
Dimensioni: 500 × 150 cm

Nota sull’adattamento sonoro

Una performance vocale dal vivo accompagna l’installazione, ispirata al brano I’ve Seen That Face Before (Libertango), composto originariamente da Astor Piazzolla (musica) e scritto da Barry Reynolds, Grace Jones e Dennis Wilkey (testo). I versi selezionati sono stati reinterpretati e adattati per riflettere e amplificare i temi dello sradicamento, delle tracce mnestiche e dell’incarnazione della presenza storica — con l’intento di riformulare la narrazione storica, centrale nel progetto Breathing Stela.

Strano, ho già visto quel volto
L’ho visto aggirarsi attorno a casa mia
Come un falco in cerca della preda
Come la notte in attesa del giorno


Strano, mi segue fino a casa
I passi risuonano sulla pietra
Notti di pioggia in terra straniera
Uomini parigini scavano per l’oro


Tu cherches quoi?
À rencontrer la mort
Tu te prends pour qui?
Toi aussi, tu détestes la vie


Danza in bar e ristoranti
A casa con chiunque voglia
Strano, è lì fermo da solo
Occhi fissi, mi gelano le ossa


Patrick Ngabonziza, noto come Ziza, è un artista ruandese con base nel Regno Unito che lavora tra performance e installazione. La sua pratica mette in relazione immaginazione e indagine critica, utilizzando concetti dell’esoterismo occidentale per riformulare narrazioni dominanti. Al Museo Egizio, la sua ricerca si è concentrata su tre testi europei del XIX secolo: una lettera di Jean-François Champollion al re Carlo Felice (1824), il poema Ozymandias di Percy Bysshe Shelley (1818), e una dichiarazione del Cav. Giulio Cordero di San Quintino, primo direttore del Museo Egizio (1824). Questi scritti rivelano l’ossessione imperiale dell’Europa per l’Antico Egitto. Ziza utilizza il materiale d’archivio del museo come fonte viva, mettendo in discussione le idee consolidate di potere, bellezza ed eredità culturale.

Dorottya Márton (piano 2, sala 4)

In molte società moderne, la morte è diventata un tabù — nascosta dalla vita quotidiana, medicalizzata e spesso evitata nelle conversazioni — modellata dalla secolarizzazione, da una cultura consumistica incentrata sulla giovinezza e dal nostro bisogno psicologico di prendere le distanze dalla mortalità. Eppure continuiamo a essere affascinati dalle culture della morte storiche e globali, come le pratiche funerarie dell'antico Egitto o il Día de los Muertos, che offrono significati simbolici, bellezza rituale e un senso di continuità tra la vita e la morte. Il mio film esplora questo paradosso attraverso interviste anonime, in cui le persone riflettono sulla propria idea di anima, morte ed elaborazione del lutto. Queste testimonianze intime si intrecciano con immagini visive di culture della morte esposte — contrapponendo il silenzio moderno all’espressione antica — per interrogarsi su come possiamo recuperare uno spazio per la morte nella vita contemporanea.




Dorottya Márton si è laureata presso l'Università di Teatro e Arti Cinematografiche di Budapest, con una specializzazione in regia di documentari. I suoi lavori sono stati proiettati, tra gli altri, al FIPADOC, al Verzió International Human Rights Film Festival, al MakeDox e allo Zsigmond Vilmos Film Festival (ZSIFF).

Il suo film How did I get here? ha vinto il premio per il miglior film studentesco al DocsBarcelona nel 2025. Il suo stile si colloca al confine tra documentario e film-saggio personale, e spesso impiega la narrazione, elementi di media misti e immagini astratte. I suoi temi affrontano traumi personali, lutto e narrazioni femminili all’interno di sistemi coloniali e patriarcali — due strutture intrinsecamente legate tra loro.

DIDASCALÍA di Gloria Oyarzabal (piano 1, sala 11 - retro Epoca Tarda)

Dal greco antico διδασκαλία (didaskalía, insegnamento), da διδάσκαλος (didáskalos, maestro), era il termine comunemente usato sia per l’addestramento del coro e degli attori, sia per la messa in scena di spettacolI durante i festival drammatici.


1. Didascalia. Dal latino captiō – inganno, frode – participio passato di capiō – prendo, afferro. Titolo o breve spiegazione nei libri, nei giornali e nelle mostre.


2. Indicazione scenica (teatro, cinema). Istruzioni precise fornite dal drammaturgo all’attore, per segnalare e spiegare tutto ciò che riguarda l’azione o il movimento dei personaggi, al fine di rappresentare correttamente la scena.


3. Didascalia degli Apostoli. Antico trattato giuridico cristiano che appartiene al genere delle Regole della Chiesa.


La storia si fonda sui fatti, ma fatti interpretati attraverso la lente del potere sociale e politico, così come dell’esperienza personale. La storia è scritta dai vincitori, diceva W. Churchill, sottolineando come la prospettiva e il racconto di chi detiene il potere tendano a dominare le narrazioni storiche, portando a una visione incompleta o distorta del passato. Napoleone la definiva una favola concordata. Ma cosa succede quando, col tempo, i vinti ribaltano la situazione e diventano vincitori? Otteniamo un’altra favola concordata?


Viviamo oggi in un’epoca post-verità, in cui emozioni e ideologie sembrano avere il sopravvento sui fatti. Eppure ogni epoca ha rivendicato la propria verità come fosse fatto. Persino la veridicità di una data può dipendere dal calendario adottato.


Speculazione vs. Interpretazione.
La speculazione riguarda ipotesi ragionate. L’interpretazione è comprensione.


Jacques Derrida, nel suo saggio Mal d’archive (Archive Fever, 1994), affronta il tema dell’alterità come rappresentazione attraverso la violenza, la ripetizione e la differenza; la pulsione di morte e il rapporto con l’altro nella memoria e nella storia.
Come rompere con l’inerzia del racconto generato da un’eredità coloniale eurocentrica trasmessa come unica, lineare e chiusa?


La spedizione di Napoleone in Egitto nel 1798 coinvolse oltre 150 studiosi e scienziati, 2000 artisti e tecnici, che raccolsero le loro scoperte in un’opera monumentale in più volumi comprendente testi, tavole e mappe: Description de l’Égypte. La macchina dell’immaginario orientalista era in piena accelerazione; lo stereotipo si rafforzava.


Napoleone scelse l’ape come emblema personale per simboleggiare il suo regno e la sua dinastia: un simbolo di laboriosità e immortalità, resurrezione e potere, volto a legittimare la propria autorità e a segnare una rottura con il precedente simbolo borbonico del giglio.


Nell’antico Egitto, il miele e la cera d’api (𓆤) erano utilizzati in vari contesti, dalla vita quotidiana ai rituali magici e religiosi. Le mummie venivano talvolta imbalsamate nel miele, e i sarcofagi sigillati con cera d’api. Anfore colme di miele venivano deposte nelle tombe come offerte per i defunti, affinché avessero qualcosa da mangiare nell’aldilà. Si credeva diffusamente che se una strega o uno stregone avesse modellato una figura d’uomo in cera d’api e l’avesse danneggiata o distrutta, l’uomo stesso ne avrebbe sofferto o sarebbe morto. Nel rituale cerimoniale noto come “Apertura della Bocca”, i sacerdoti usavano strumenti speciali per inserire miele nella bocca di una statua divina o di una mummia reale. Alcune formule rituali indicano che gli Egizi potevano persino credere che l’anima di un uomo (il suo ka, o doppio, la parte che continua dopo la morte) assumesse la forma di un’ape. Un altro rituale del Libro di Amduat – o “Dell’Oltretomba” – paragona le voci delle anime al ronzio delle api.


L’esposizione delle mummie, in particolare quelle egiziane, è oggetto di un dibattito etico continuo. Le preoccupazioni riguardano il rispetto dei defunti, la potenziale insensibilità culturale e l’impatto sui discendenti. A mio avviso, esporre mummie – specialmente quelle appartenenti a culture antiche – rafforza stereotipi razziali e tratta resti umani come meri oggetti.




“La mercificazione, esposizione e manipolazione simbolica delle mummie egiziane – e in generale dei resti umani – è al cuore delle tensioni etiche della museologia contemporanea. Sebbene i corpi mummificati siano stati storicamente avvolti da un’aura di mistero e prestigio, la verità è che si tratta di esseri umani, con vite, storie, famiglie e dignità. Eppure la loro esposizione è spesso inquadrata come spettacolo esotico o curiosità storica, invece di essere affrontata con la reverenza e la riflessione critica che meriterebbe. È una pratica così normalizzata che spesso dimentichiamo di metterla in discussione. Ma come artisti e ricercatori, il nostro compito è quello di disturbare questa normalizzazione, generare disagio dove c’è stata compiacenza, e chiedere: quale conoscenza viene prodotta qui – e per chi?”



Sela Adjei, artista multidisciplinare, ricercatore e curatore ghanese
"Fifteen Colonial Thefts: A Guide to Looted African Heritage in Museums"


Nata nel 1961 a Londra, Gloria Oyarzabal vive e lavora a Madrid. Laureata in Belle Arti, diversifica la sua attività tra cinema, fotografia e insegnamento. Co-fondatrice e programmatrice del cinema indipendente “La Enana Marrón” di Madrid (1999-2009), dedicato alla diffusione del cinema d'autore, sperimentale e alternativo.

Ha vissuto 3 anni a Bamako, in Mali (2009-2012), conducendo ricerche sulla costruzione dell'idea di Africa, sui processi di colonizzazione/decolonizzazione, sulle nuove tattiche del colonialismo e sulla diversità delle voci del femminismo africano.

Dopo il Master in Creazione e Sviluppo di Progetti Fotografici alla Blankpaper School of Photography (Madrid, 2014-15), il suo lavoro è stato esposto al Fotofestiwal Lodz (Polonia), Lagos Photo (Nigeria), FORMAT (Regno Unito), Guetxo Foto (Spagna), Athens Photo (Grecia), PHE PhotoEspaña (Spagna), Thessaloniki Museum of Photography (Grecia), PHOTO IS: RAEL (Israele), Bitume Festival Lecce (Italia), Encontros da Imagem Braga (Portogallo), Odessa Photo Days (Ucraina), Organ Vida (Croazia), Kaunas Foto (Lituania)... tra gli altri.

Dal 1996 lavora nel mondo del cinema occupandosi della direzione artistica e della fotografia di cortometraggi e documentari sperimentali.



La residenza dei cinque artisti internazionali si colloca nell’ambito del progetto “CONTESTED DESIRES: Constructive Dialogues”, co-finanziato dall’Unione Europea.




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